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di Giuseppe Turani
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Attenzione ai confini!
 
In via di superamento la sottile linea rossa che separa la sottovalutazione dalla sopravvalutazione. di A. FUGNOLI (Abaxbank)
 
 
 
Da il Rosso e il Nero, settimanale di strategia
di Alessandro Fugnoli, strategist Abaxbank

MILANO - C’era un tempo in cui passare il check point Charlie a Berlino era un’esperienza. A farlo nelle fredde sere d’inverno con la nebbia, i latrati dei cani poliziotto, il filo spinato, i mitra puntati dalle torri di guardia e i gelidi sguardi dei Volkspolizisten che scrutavano il passaporto per attimi interminabili, il concetto di confine tra due mondi appariva in tutta la sua brutale chiarezza e oggettività.

Ci sono però altri tipi di confine che sono esclusivamente mentali e soggettivi e sono altrimenti impalpabili, tanto che devono essere segnalati. State ad esempio superando l’equatore, per mare o per terra, e il paesaggio al di qua e al di là è assolutamente identico. Se non c’è un cartello e se non avete il GPS, potete non accogervi di nulla e non vi cambia niente. Se ve ne accorgete, potete ignorare

la cosa, e non succede nulla, oppure potete darle grande valore simbolico ed emozionarvi. Tutto avviene esclusivamente nella vostra testa e solo lì.

Talvolta il superamento di un confine nel continuo dello spazio e del tempo è oggetto di riti di passaggio. Cerimonie di iniziazione sono presenti in quasi tutte le culture per marcare la transizione dall’adolescenza all’età adulta. Lo stesso passaggio dell’equatore, quando è la prima volta nella vita individuale, viene celebrato dai marinai con riti complessi fin dai tempi dei Vichinghi.

Nei mercati azionari, il passaggio dalla sottovalutazione alla sopravvalutazione (e viceversa) non è marcato né tantomeno celebrato. Generalmente non viene nemmeno avvertito.

In alcune culture questo passaggio non esiste nemmeno come concetto, perché non esiste la distinzione tra prezzo e valore. L’analisi tecnica ripudia programmaticamente la nozione di valore e si muove esclusivamente nell’universo chiuso dei prezzi, che sono ai suoi occhi sempre e comunque legittimi. L’analisi tecnica è relativista e rifiuta i giudizi di valore. E’ pensiero debole.

Nella cultura del mercato efficiente, da Fama in giù, il valore esiste, ma coincide sempre e comunque con il prezzo. Il prezzo è sempre giusto, perché riflette istantaneamente il mondo.

Ci sono però anche culture sapienziali, pensiero forte, che pensano che si debba distinguere tra la doxa dei prezzi e l’episteme del valore. Nei circoli esoterici, gli iniziati ritengono di possedere la formula del valore. Le scuole sono molte e in conflitto tra loro, ma le accomuna l’idea che il valore, aristotelicamente, è il luogo naturale verso cui il prezzo deve tendere.

Per alcune di queste scuole i mercati azionari stanno superando la sottile e invisibile linea rossa che divide la sottovalutazione dalla sopravvalutazione. Il fatto che questa transizione non faccia notizia è assolutamente normale, anche se, per certi aspetti, strano. Passò sotto silenzio un passaggio analogo avvenuto in qualche punto del 1996. Solo Greenspan lo fece notare, nel dicembre di quell’anno, nel famoso discorso di Tokyo sull’esuberanza irrazionale. Per un mese fece l’effetto del bambino della favola del Re Nudo, poi la ferita si rimarginò e il mercato tornò esuberante, sempre più esuberante, nei tre anni successivi, fatta salva l’interruzione dovuta alla crisi asiatica e russa del 1998. Nell’ultimo anno completo di esuberanza, il 1999, lo S&P 500 riuscì a salire del 19.2 per cento in assenza assoluta di miglioramenti degli utili delle 500 società (e con tassi d’interesse in salita). Pura, meravigliosa, soffice schiuma, con un bonus di ulteriori tre mesi di rialzo inerziale a inizio 2000.

L’esperienza degli anni Novanta deve servire a ricordare che i prezzi godono di enorme libertà rispetto al valore. Si può anzi dire che, di regola, prezzi e valore non coincidono mai, con l’eccezione di quegli istanti in cui le loro due linee, due o tre volte al decennio, s’intersecano. Come la notte succede al giorno ed è altrettanto legittima e dotata di senso, così le fasi di sopravvalutazione hanno la stessa legittimità e la stessa dotazione di senso di quelle di sottovalutazione. Attenzione quindi a non cadere, una volta constatato che i mercati iniziano a diventare cari, nella condanna moralistica. Attenzione a non assumere atteggiamenti corrucciati e scandalizzati per giustificare la ritirata anticipata nell’orticello del cash.

Da molti punti di vista un guadagno (o una perdita) del 10 per cento in un mercato sopravvalutato è assolutamente identico a un guadagno (o a una perdita) in un mercato sottovalutato. Nessun censore ha avuto da ridire sul 2005, un anno in cui l’SP 500 è salito solo del 3.9 per cento mentre gli utili salivano del triplo. Ne consegue che nessuno dovrebbe avere troppo da ridire se quest’anno succedesse il contrario. Diverso sarebbe il discorso se la divergenza si dovesse prolungare al 2008 e oltre, ma per il momento un ampliamento ragionevole dei multipli in un contesto solido e sano non deve spaventare nessuno.

Ci sono però due aspetti da tenere presenti. Il primo è la questione della vulnerabilità. Attenzione, qui non è questione di prezzi che, più alti sono più possono cadere (e cadere dall’ottavo piano fa più male che cadere dal secondo o dal quarto). Non lo è perché una sorpresa negativa può arrivare tanto in un mercato caro quanto in uno sottovalutato (la borsa di Pietroburgo era sottovalutata nella primavera del 1917, ma la sorpresa dell’Ottobre la azzerò prima ancora che Lenin la chiudesse d’autorità).

La vulnerabilità indiscutibile delle fasi di sopravvalutazione, e solo di queste, è che la crescita delle valutazioni si accompagna invariabilmente con una crescita delle posizioni e, in parallelo, dei meccanismi di stop loss. Questi meccanismi sono diversi in ogni ciclo e ogni volta si pensa di avere trovato lo stop loss infallibile, salvo esserne puntualmente travolti in caso di abuso.

Il crash del 1987 durò due giorni. Chi era in viaggio poté quasi non accorgersene, chi era senza leva poté permettersi, una volta constatato che l’economia reale continuava ad andare bene, di pazientare. Chi era a leva si fece male. La sera i margini vanno pagati e alla stanza di compensazione non interessa che l’economia vada bene o che il giorno dopo rimbalzerà tutto.

Il secondo aspetto da considerare è comportamentale. Bisogna guardarsi dentro seriamente e decidere. Essere orientati al valore oppure al momentum, prima ancora che una scelta filosofica, è una scelta psicologica che attiene al proprio software mentale. Chi ha una psicologia da momentum fa pasticci nella prima metà di un bull market (quando il momentum non è mai abbastanza consolidato e i double dip sono in agguato), chi è orientato al valore li fa nella seconda. Prima esce, poi sta alla finestra, poi ricompra più in alto sentendosi in colpa, poi esce in perdita al primo spauracchio, sgridandosi per non avere rispettato i propri principi quando ha comprato caro.

La conclusione di questo ragionamento è che più sale il mercato meno leva bisogna usare, indipendentemente dai fondamentali sottostanti. L’avidità ragionevole è il sale dei mercati, quella eccessiva è la loro tossina (lo è di sicuro a livello individuale).

La seconda conclusione è che chi è orientato al valore è destinato a soffrire nel prossimo periodo. Potrà però minimizzare la sofferenza spostandosi dai mercati emergenti ai mercati centrali e alle larghe capitalizzazioni. Potrà fare ampio uso di strumenti di protezione (proprio adesso che, segno dei tempi, sono richiestissimi i nuovi fondi hedge poco diversificati e ad alto rischio). Potrà lavorare sul valore relativo con arbitraggi. Potrà infine, da sottoinvestito, comprare a man bassa nelle fasi di correzione improvvisa che le banche centrali, di tanto in tanto, non mancheranno di provocare.

Un’ultima osservazione. Una precondizione per la sopravvalutazione delle borse è una politica monetaria espansiva in un ciclo economico non più giovane. Quando Greenspan parlò di esuberanza irrazionale la situazione monetaria era già questa, ma in proporzioni tutto sommato non rilevanti. Tutto precipitò dopo la crisi dell’estate del 1998, quando la Fed, spaventata, divenne ancora più espansiva in relazione all’anzianità del ciclo, ormai all’ottavo anno.

La situazione attuale è di cauto avvicinamento alla neutralità monetaria, possibilmente senza raggiungerla del tutto (in particolare in Europa e in Giappone). E’ una situazione da 1996, non da 1998 e, come tale, può dare luogo a entusiasmi moderati, non preoccupanti. Perché le banche centrali tornino aggressivamente espansive, fornendo il combustibile per una nuova bolla, occorrono incidenti di percorso che, al momento, non è dato di vedere.

 
(23 febbraio 2007)